The Rachel Divide è il titolo di un documentario spiazzante capace di mischiare le nostre convinzioni sul concetto di identità e appartenenza etnica disponibile sulla piattaforma in streaming Netflix. Diretto da Laura Brownson, questo lungometraggio è incentrato sull’ambigua figura dell’attivista, docente e leader della comunità afroamericana Rachel Dolezal.
Il girato parte dalla conoscenza di Rachel, un’attivista per i diritti degli afroamericani a Spokane, nello stato di Washington, presidentessa della sede locale del NAACP, (Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore), e docente universitaria degli Studi Africani alla Eastern Washington University.
Ma la volitiva passionale Rachel nasconde un terribile segreto: fingeva di essere una donna di colore. Attraverso l’aggiunta di treccine extension e di un maquillage al viso per apparire più scura, Rachel, tra battaglie contro le discriminazioni razziali e manifestazioni per la comunità afroamericana, fingeva di essere chi non era.
In seguito a questa rilevazione, i media e i giornali hanno cercato di strumentalizzare la vicenda, tentando furiosamente di gettare ombra sul suo operato, asserendo quanto l’ex docente fosse una persona disturbata e una bugiarda. Questo documentario cerca di offrire sulla vicenda il diritto di replica proprio a Rachel che dichiara di sentirsi e di percepirsi come nera, pur non essendolo biologicamente.
La Brownson cerca di indagare sulle motivazioni psicologiche del rifiuto di Rachel della sua etnia caucasica. Nata in una famiglia molto religiosa del Montana, i suoi genitori, dopo la sua nascita, adottano tre bambini di origine africana che il padre aveva iniziato a maltrattare proprio per il colore della loro pelle.
Secondo la donna questo bisogno di proteggere i suoi fratelli, aveva scatenato a lungo andare, dentro di lei, una repulsione verso i suoi genitori e tutti i suprematisti bianchi, arrivando infine a rifiutare la sua immagine riflessa che la identificava come una di loro tanto da precepirsi una donna nera nel corpo di una persona bianca.
La storia di Rachel ha scatenato, negli USA, un tumultuoso dibattito sul concetto di appartenenza etnica e in merito a questa nuova identità (o, meglio, percezione di essa) è stato persino coniato un nuovo termine: “trans–black“.
Come si vedrà nel documentario, l’assalto della stampa nella vita di Rachel e soprattutto dei suoi figli avrà un effetto devastante. Anche l’opinione pubblica incomincia a massacrarla: a comunità bianca la accuserà di aver rifiutato le sue origini, quella afroamericana di essersi impadronita della cultura nera.
Nonostante abbia perso in colpo solo il lavoro e persino la stima dei suoi figli (i ragazzi sono neri e bullizzati dai loro compagni di scuola per la vicenda), Rachel continua a dichiararsi una trans–black, ancora pronta ad abbattere le barriere sui concetti di identità, autodeterminazione e realtà della razza come costrutto sociale.
Che sia una truffatrice o una rivoluzionaria della percezione di sé e del linguaggio, Rachel continua a dichiararsi afroamericana. In merito ha scritto anche un libro, l’autobiografia “In Full Color“, dove dichiara che essere neri è una cosa che coinvolge la sfera filosofica e culturale più biologica e che quindi in definitiva tutti noi dovremmo domandarci: “Conta di più come si nasce o come ci si sente?”.
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